"Esiste la violenza giusta?" - Parte Prima

Il mondo sembra pregno di violenza in ogni dove e non abbiamo il tempo di fermarci per riflettere sul significato dei messaggi che vengono scientemente trasmessi.

Viviamo in una società sempre più orientata al profitto e anche gli atti di violenza sono un viatico per chi intende lucrarne; una cattiva notizia è decisamente più appetibile di una buona notizia, ed è così che i media si cibano attraverso la spettacolarizzazione del male.

Accettando di informarci, auto-convincendoci che sia una scelta necessaria ed imprescindibile, contribuiamo a tale profitto e arriviamo a pensare che in certi casi l’utilizzo della violenza sia “giusto”.

I media lavorano alacremente nell’alimentare l’indignazione, nella consapevolezza che costituisca uno strumento valido di “fidelizzazione della clientela”.

Le ragioni di questo comportamento sono molteplici, ma qui preferisco solo comprendere se effettivamente esiste una “violenza giusta”; la risposta appare sempre essere NO, non esistono prove alcune che la violenza sia una modalità per risolvere un qualsivoglia conflitto.

Il primo pensiero che viene spontaneo è quello diretto alle guerre e prima tra tutte viene alla mente la “seconda guerra mondiale” dove un leader tutt’altro che illuminato ha deciso di procedere contro altri individui nel modo più atroce possibile, animato dalla convinzione che l’unico modo per risolvere il proprio conflitto fosse l’eliminazione “fisica” del presunto nemico.

Appare impopolare considerare l’azione messa in campo da chi è riuscito a fermare un uomo così folle sbagliata, ma in questo mi viene in aiuto ancora, questa volta sì, “l’illuminato” Tiziano Terzani che rispondendo al figlio Folco afferma:

“ma poi ci sono tutti quegli orribili argomenti dei soloni, dei sapienti, dei saggi, dei politici, secondo i quali la non violenza non funziona perché «Cosa avresti fatto con Hitler?» In verità, se rileggi Gandhi vedi com’era bravo. Voleva persino incontrare Hitler. Viene fuori la cosa sorprendente che Gandhi gli scrisse varie volte ma che gli inglesi intercettarono le sue lettere perché non volevano che ci parlasse. Curioso, ma è così. Lui diceva che uno è schiavo perché obbedisce. Appena smette di obbedire non è più schiavo. Diceva che le dittature cadono quando la gente non ci crede più, non obbedisce più. Niente più sta in piedi quando c’è la precisa volontà di non usare la violenza, di resistere contro la violenza con la non violenza: non fuggendo, non evitando il confronto, ma cercando il confronto.”

Ci sono infiniti spunti in questo profondo passo, dalle diverse verità che si possono celare sotto una notizia, a chi permette ad una dittatura di perpetuarsi, al potere della non-violenza, alla violenza come fuga dal confronto, insomma traspare sempre più l'anima del cambiamento, quella che trova la sua unica linfa nell'individuo.

Difficilmente nelle esplosioni di violenza come quelle che sfociano nelle guerre, si sente parlare della possibilità di dialogare, quasi fosse una visione romantica del conflitto, idealista, quando invece sarebbe opportuno chiedersi se la soluzione della violenza dettata dal più forte (apparentemente), non abbia fallito e continui a fallire miseramente.

Ho volutamente scritto il termine apparentemente tra parentesi perché avremo modo di comprendere come la forza intesa come capacità dell’individuo di farsi giustizia attraverso la violenza, sia in verità un atto di forte debolezza originata dalla paura.

E’ sotto i nostri occhi la situazione catalana; personalmente conosco ben poco di questo conflitto e ben poco si comprende attraverso l’informazione che si limita a seguire a passo di danza la crescente tensione tra le parti ed i possibili sviluppi concentrando la propria attenzione sull’aspetto maggiormente “redditizio” della possibile violenza e dello scontro che potrebbe scaturirne.

Continuo a non voler sapere le ragioni delle parti, nella mia natura di mediatore, proprio perché mi permette di interrogarmi sulle possibilità alternative alla violenza e non fatico a comprendere che l’unico vero sconfitto è “il dialogo”; nessuno desidera parlare degli interessi e dei bisogni delle parti, quasi fosse un possibile tratto di debolezza e una forma di possibile resa. I confliggenti pensano che “togliere” il problema dall’altro e metterlo al centro del tavolo sia pari ad una resa e nessuno vuole essere il primo a farlo. E’ così che il conflitto subisce un’escalation che è già sotto i nostri occhi e che può sfociare, come già accaduto, in violenza.

La storia tuttavia insegna che in molti casi le cose sono andate diversamente, per esempio cito, nell'ambito dei conflitti arabo-israeliani, gli accordi di Camp David, accordi firmati dal presidente egiziano Sadat e dal Primo Ministro israeliano Begin nel 1978 sotto l'auspicio del Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter. Israele occupava la penisola egiziana del Sinai fin dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967; le loro posizioni erano incompatibili; Israele insisteva per mantenere una parte del Sinai; l’Egitto, perché ogni pollice del Sinai fosse restituito alla sovranità egiziana; più volte vennero disegnate carte che mostravano tutte le linee di confine possibili, la partizione del Sinai non era accettabile per l’Egitto, tornare alla situazione del 1967 era ugualmente inammissibile per Israele.

A Camp David, il presidente egiziano e il primo ministro israeliano si accordarono su un piano che avrebbe restituito il Sinai alla completa sovranità egiziana e, smilitarizzando vaste aree, avrebbe tuttavia garantito la sicurezza d’Israele; la bandiera egiziana avrebbe sventolato ovunque, ma i carri armati egiziani non sarebbero stati in nessun posto vicini a Israele.

Una soluzione che ha accontentato tutte e due le parti senza ulteriore spargimento di sangue anche se non senza strascichi; pertanto, la negoziazione si raggiunge quando entrambi arrivarono a capire meglio i rispettivi interessi, in questo caso era la proprietà per l’Egitto e la sicurezza militare per Israele.

Sempre di più è necessario togliere il piede dall’acceleratore, presi dalla velocità delle notizie che sentiamo e che piombano roboanti nella nostra realtà quotidiana, e interrogarsi ponendo un ragionevole dubbio su cosa effettivamente vuole dirci una notizia; il solo fatto che rete, televisione, radio e giornali diano un'univoca interpretazione, non fa di quella notizia una notizia attendibile e incontrovertibile; è necessario sviluppare quel senso critico che non deve essere considerato complottismo ma semplice desiderio di non correre verso un affrettato giudizio, ma dandosi lo spazio per guardare i fatti da tutte le angolature e provando a declinarli in modi diversi, allargando il proprio orizzonte di pensiero.

Bisogna partire dal presupposto che non esiste una netta e radicale divisione tra buoni e cattivi, ma esistono solo individui diversi, ingabbiati nella propria visione delle cose e spesso schiavi di se stessi e che quello che sembra essere il loro evidente scopo è invece un grido, un grido che se ascoltato permette di comprenderne le implicazioni e apre scenari incredibilmente diversi e che possono portare a soluzioni che non devono assolutamente passare dal filtro della violenza, che rimane di fatto il vero e definitivo fallimento della relazione.

Allora si può percepire quanto la violenza sia l'ultimo stadio della relazione, il punto di non ritorno, la personificazione dell'incapacità dell'individuo di mettersi in gioco e provare a trovare una via d'uscita, ma di questo avrò modo di parlarne nei prossimi contributi dove, chiarito il ruolo della violenza e dell'impossibilità di quest'ultima di essere risolutiva in qualsiasi caso, l'attenzione si sposterà lentamente verso l'individuo, unico attore ed interprete della propria vita.

 

Terzani, Tiziano. La fine è il mio inizio (Il Cammeo) Longanesi.

Sugli accordi di Camp David: Fisher, W. Ury, B. Patton. L’arte del negoziato. Corbaccio.

 

Parti successive: