Termina la serie riguardo alla Mediazione Familiare: Capitolo Quinto.
Conclusioni
Pubblicazione della tesina del Master in Mediazione Familiare a cura di Alfonso Lanfranconi
Capitoli già pubblicati:
- Il Caucus o sessione separata nella Mediazione Familiare
- Il Caucus o sessione separata nella Mediazione Familiare (2)
- Il Caucus o sessione separata nella Mediazione Familiare (3)
- Il Caucus o sessione separata nella Mediazione Familiare (4)
CAPITOLO QUINTO
Conclusioni
Il presente lavoro non si è posto solo l’obiettivo di analizzare il “caucus”, ma di allargare il proprio spettro alla figura del mediatore e al suo ruolo così peculiare e unico.
La nascita della figura del mediatore può essere fatta risalire alle antiche società patriarcali dove i membri anziani di clan familiari erano interpellati per comporre le controversie insorte tra coloro che ne facevano parte e dove anche nelle culture orientali era il capo del villaggio ad avere il compito di risolvere le liti insorte tra i membri della comunità di appartenenza.
Indubbiamente queste figure non si limitavano ad ascoltare le parti e a prendere una decisione su chi aveva ragione o torto ma attingevano alla propria esperienza e al proprio ruolo per comprendere i termini della questione e capire quali potevano essere le soluzioni migliori da suggerire e le soluzioni che avessero come obiettivo il miglioramento dei rapporti all’interno della comunità.
E che dire della funzione della Chiesa che con i suoi parroci ha cercato e cerca ancora oggi di mediare le controversie tra parrocchiani, oltre alle ben più rilevanti mediazioni Pontificie che arrivavano e arrivano ancor oggi a dirimere controversie addirittura tra Stati diversi.
Oltre oceano, negli Stati Uniti, già dal 1887 il Governo Federale favorì l’istituzione della mediazione e intorno al 1906 fu un convegno della American Bar Association a istituzionalizzare gli strumenti e le procedure ADR come modalità di risoluzione delle controversie.
Nel 1967 psicologi e filosofi come Paul Watzlawick, Janet H. Beavin e Don D. Jackson pubblicarono dei principi relativi alla comunicazione e al conflitto tra individui.
Solo con il codice di Hammurabi, circa due mila anni prima della nascita di Cristo, si avranno i primi rudimenti di leggi scritte; la tanto invocata “giustizia” nasce quindi successivamente con l’intento di dare ordine al sistema sanzionatorio per coloro che non seguivano le regole della società e che per questo venivano espulsi da quest’ultima per poi, attraverso l’espiazione della pena comminata, esserne reintrodotti.
Oggi si assiste ad una situazione dove la mediazione sembra nuovamente destare interesse e la ragione appare quella di un fallimento della giustizia, sensibilità che negli Stati Uniti è stata colta, come detto, fin dagli albori del ‘900.
Uno dei limiti della cultura nostrana porta ad etichettare le innovazioni introdotte oltre oceano come non calzanti a priori per il nostro Paese e spesso tale convinzione si rivela del tutto arbitraria come accaduto in passato e come accaduto anche con la stessa mediazione in tutte le sue declinazioni.
La mediazione negli Stati Uniti come in Inghilterra funziona e funziona bene da tempo, al punto che ormai è strumento privilegiato per risolvere ben il 90% delle possibili cause che diversamente finirebbero per essere devolute alla giustizia ordinaria.
In questo elaborato si è centrata l’attenzione sui differenti modelli che sono praticamente, eccettuato il modello di Jacqueline Morineau, originati nel Paese a stelle e strisce ed esportati in primis in Inghilterra.
La sensibilità americana nasce dall’aver compreso che la giustizia si era eccessivamente “cristallizzata” e non riusciva ad interpretare le esigenze di una società che mutava progressivamente con il passare del tempo.
Le leggi scritte rimangono nel tempo ma, se non attualizzate, si allontanano sempre più dalle esigenze della popolazione non intercettando pienamente le dinamiche che si erano prefisse di regolare.
E’ così che per primi gli americani hanno basato il proprio sistema giuridico sul principio generale dello “stare decisis” (in latino: rimanere su quanto deciso) in forza del quale il giudice è obbligato ad applicare quanto desunto dalle sentenze anteriori dei propri colleghi nel caso in cui la fattispecie sottoposta al suo esame sia identica a quella già trattata da questi ultimi. Nei sistemi di common law i precedenti diventavano la fonte stessa di diritto, contribuendo a dare dinamismo e una migliore risposta alle esigenze di una comunità sempre più in fermento.
Ecco il perché si ricorre nuovamente alla mediazione: si ricorre con l’ottica di fare un ulteriore salto di qualità nel processo di secolarizzazione del giudizio, visto che era e rimane uno strumento importante per la regolazione della vita della società.
Nel vecchio continente, dove le leggi sono invece del tutto “rigide” e dove la loro interpretazione segue una sorta di rito di conservazione e perpetuazione nel tempo, non poteva che crescere sempre più il bisogno dello strumento della mediazione, anche se soffocata da chi, in primis gli operatori del settore, avevano interesse a che nulla cambiasse.
Ecco così che “l’ariete” identificato nella crescente crisi economica ha dato quella spallata che ha prodotto un primo ingresso della mediazione al fianco della giustizia la quale l’ha sùbito raccolta come grimaldello risolutore dei propri problemi e insuccessi.
Purtroppo ancor oggi è difficile comprendere quanto “essere mediatore” sia un ruolo che investe il proprio essere non lasciando nulla all’improvvisazione.
Nonostante ciò nasce la necessità di dare una struttura moderna e organizzata alla mediazione dando il via allo sviluppo di scuole di pensiero e modelli diversi che si attagliano alle varie situazioni di conflitto.
I primi interpreti di questa nuova visione della risoluzione dei conflitti creano così dei “vestiti su misura” che diventano espressione di modelli poi esportati in giro per il mondo.
Superata la prima fase di applicazione dei vari modelli e delle varie applicazioni nei differenti tipi di mediazione, si sta sempre più facendo strada l’importanza della figura di un mediatore per il quale la mediazione stessa è diventata un modello di vita spontaneamente applicabile nel processo di interazione con le parti.
Ritengo personalmente necessario provare ad astrarsi dai diversi modelli di mediazione delineati restituendo al mediatore la dignità di un ruolo non di mero esecutore di una tecnica di lavoro ma di interprete della propria esperienza personale, del proprio vissuto, del proprio sentito, che si riverberano sulla personale sensibilità che è la chiave determinante per il successo relativo al suo “saper mediare”.
Cosa accadrebbe se a studiosi come Folger, la Morineau o Friedman, per citarne alcuni, si chiedesse di utilizzare altri modelli rispetto al proprio e si chiedesse loro di applicarli alla lettera?
Questo interrogativo indubbiamente apre uno scenario che è ancora tutto da esplorare e che il sottoscritto rilancia al lettore; probabilmente una corretta valutazione del “futuro” candidato mediatore non potrà prescindere da una maggior conoscenza della “persona”, delle sue peculiarità, della sua unicità prima ancora di occuparsi di dare nozioni sugli strumenti della mediazione.
Si nasconde proprio qui la ragione per la quale, dopo aver conosciuto diversi e variegati tipi di mediazione, rimango sempre critico sulle ragioni che portano un formatore a privilegiare un tipo di mediazione rispetto ad un altro.
Se ci sentiamo “mediatori dentro”, potremo muoverci come in una danza tra i vari modelli e tra le varie tipologie di mediazioni, portando prima di tutto noi stessi e sicuri che ogni eventuale errore sarà vissuto dalle parti in un atteggiamento di accettazione e accoglimento, risultato di un lavoro iniziato fin dal primo istante del primo incontro.
Non si può a questo punto non concludere tornando alla sessione separata che, apparirà ora di semplice comprensione, non possa più essere vista come una regola generale o uno strumento per quella o questa mediazione ma solo come una modalità di lavoro, dettata dalle esigenze prima di tutto del mediatore, esigenze non intese come bisogni o necessità, ma “abito su misura” che permette al mediatore di empatizzare con le parti e che permette alle parti di non sentire alcun comportamento o proposta del mediatore come “invasione” ma facendo diventare la mediazione un setting dove mediatore e parti collaborano con partecipazione e rispetto al lavoro che prima di tutto è un lavoro “comune” e dove nessuno insegna niente a nessuno e tutti diventano attori nella riattivazione della comunicazione traendone il massimo beneficio.
Ancora più riduttivo a questo punto diventa fare una minuziosa analisi dell’opportunità di fare o non fare una sessione separata, di impiegare il tempo a motivarne le ragioni alle parti, di soffermarsi a dettagli come l’impiego del tempo equilibrato tra le parti.
Quali parole di un mediatore possono giustificare l’aver speso più tempo con l’una o l’altra parte con efficacia quanto l’aver trasmesso fin da subito quel senso di fiducia nel suo operato, senso che diventa presupposto di ogni e qualsivoglia fatto possa accadere negli incontri di mediazione.
E’ fuor di dubbio che, nell’insegnamento che un formatore propone nei propri corsi di formazione alla mediazione sia opportuno porre dei parametri sull’utilizzo di tale strumento, attingendo ai vari modelli studiati, volendo fornire ai “nuovi” mediatori una bussola che li possa orientare quando lasceranno le simulazioni per imbattersi in una vera mediazione.
Indubbiamente non potranno mancare neppure gli elementi base e distintivi dei differenti tipi di mediazione e non potrà mancare un approfondito accento su tutto quanto è necessario che il mediatore ponga appunto nella propria “cassetta degli attrezzi”, necessarie ed imprescindibili anche le citate “simulazioni” che possono proiettare il mediatore nell’arena della mediazione in primis come sperimentatore, ma in futuro non si potrà più prescindere da una analisi delle attitudini personali del singolo mediatore.
Si ritiene auspicabile anche pensare che in un futuro non lontano ci possano essere strumenti adeguati per comprendere quale “bagaglio iniziale” debba avere un soggetto che si affaccia alla mediazione e quali capacità di crescita e affermazione lo aspettino, come operare per fare leva sulle doti individuali come base di un lavoro che non prepari ad una professione, ma che aiuti il mediatore a crescere per diventare il “mediatore del domani”.
Probabilmente si assisterà ad un radicale cambiamento del modo di formare i mediatori, portando l’insegnamento dei vari modelli di mediazione sullo sfondo e portando progressivamente al centro strumenti che possano aiutare il mediatore di domani ad essere il più possibile consapevole delle proprie doti e capacità, come base per poi “raffinare” il proprio percorso verso una funzione, quella del mediatore, che sarà sempre meno “professionale” e sempre più “vocazionale”.
Possono apparire queste affermazioni forse difficilmente condivisibili, ma la storia sembra dare ragione a chi, come il sottoscritto, si sente sempre più stretto in un percorso che sembra molto simile ad altri percorsi professionali e troppo lontano da una realtà in mutamento, realtà che ci appare quotidianamente e che sempre più chiede soggetti abili a fare ciò che appartiene al proprio bagaglio, piuttosto che soggetti che decidono a tavolino il proprio futuro e la propria attività, partendo da un solo motivo di decisione ossia quello legato all’arricchimento economico.
Solo così potremo superare un momento, quello delle sessioni separate, che sempre meno può essere “oggettivizzato” a discapito della sua propria natura di “differente modo di concepire la mediazione” e “differente modo di relazionarsi con le parti in mediazione”.
FINE QUINTO E ULTIMO CAPITOLO